Legge stabilità, balneari: “Esame serio in vista delle sfide attuali e future”

Le associazioni di settore richiamano, unitariamente, ad un sereno confronto, nel merito delle proposte, scevro da ‘confusioni mediatiche’

Chiediamo che le attuali proposte – come eventualmente altre – siano serenamente esaminate e discusse senza falsi quanto infondati preconcetti e senza offensive banalizzazioni.

Le imprese italiane che rappresentiamo meritano rispetto e considerazione e non la presa di posizione pregiudiziale magari di chi continua ad opporsi a qualsiasi iniziativa che riguardi questo settore con argomentazioni fragili e inconsistenti – in alcuni casi palesemente strumentali – arrivando persino a infangare e demonizzare 30.000 aziende a conduzione familiare mentre le stesse ben meriterebbero di essere difese, elogiate e sostenute quale eccellenza italiana che costituisce un fattore di successo e di competitività del turismo nazionale.

Negli ultimi giorni il dibattito pubblico, sia mediatico che politico, sul disegno di legge di stabilità è stato quasi del tutto monopolizzato dall’interrogativo se “vendere o meno le spiagge” anzi, dall’imperativo “le spiagge non si vendono!”.

Qualsiasi esame, anche superficiale, degli emendamenti “incriminati”, presentati da senatori appartenenti a diversi schieramenti politici, avrebbe facilmente consentito a chiunque di verificare che nessuno propone, o ha proposto, la vendita di tratti di spiaggia ma esclusivamente di tutto ciò che, per i cambiamenti orografici della costa o per le trasformazioni edilizie legittime intervenute nel tempo, “hanno ormai perso l’originale caratteristica” (emendamento 3.010 Granaiola ed altri) e “in quanto non più utilizzabili per i pubblici usi del mare” (emendamento n. 3.0.12 Gasparri ed altri; 3.0.14 Bruni).

Lo affermano in una nota congiunta le Associazioni di categoria, in rappresentanza di 30.000 imprese balneari italiane: SIB – FIPE/Confcommercio, FIBA – Confesercenti, CNA – Balneatori, Assobalneari Italia – Confindustria e OASI – Confartigianato.

A ciò si aggiunga che, per evitare qualsiasi sanatoria di eventuali abusi, tutte le proposte emendative hanno escluso che la vendita possa riguardare “le superfici coperte realizzate in assenza di titoli autorizzatori validi o in presenza di abusi edilizi” e che la stessa, inoltre, debba avvenire non a prezzo di favore ma “sulla base delle valutazioni correnti di mercato”.

Pur cui, un semplice esame obiettivo – e non preconcetto – di questi emendamenti avrebbe impedito il surreale dibattito sulla “svendita delle spiagge” da nessuno avanzata e, meno che mai, dalle nostre Organizzazioni.

Si tratta, pertanto, di una specificazione e semplificazione del normale procedimento di sdemanializzazione disposto dall’articolo 35 del Codice della Navigazione del lontano 1942 pacificamente attuato dalla Pubblica Amministrazione e che ha permesso nel tempo di realizzare legittimamente parti delle nostre città costiere e di modificare una linea demaniale risalente, in molti casi, a quella definita nell’ormai remoto 1899.

Come non ricordare, da ultimo, che, non più tardi di qualche settimana fa, il Comune di Rimini è diventato, finalmente, proprietario di ben 140.000 mq. del suo lungomare a seguito, proprio, della sclassificazione di un tratto di quello che era un tempo “demanio marittimo”. Il tutto senza scandali e senza che si sia intrapresa alcuna epica battaglia per la salvaguardia della “spiaggia” anzi manifestando grande soddisfazione e rammarico per il tanto tempo trascorso per fare ciò che la logica imponeva: sdemanializzare e cedere.

Se invece di una discussione fantasiosa ci fosse stato una semplice lettura delle norme proposte qualcuno avrebbe dovuto spiegare che cosa c’è di “ uso del mare” (che per il nostro Ordinamento giuridico costituisce il presupposto della demanialità marittima) nell’area sottostante un ristorante costruito alla fine dell’800 rispetto allo sdemanializzato lungomare adiacente.

Al contrario si è urlato alla “cementificazione delle spiagge” per colpire e orientare l’attenzione dell’opinione pubblica, quando è ormai noto a tutti che le normative ambientali e urbanistiche che governano i litorali sono minuziosamente disciplinate da leggi, regolamenti e innumerevoli strumenti di pianificazione delle Regioni, dei Comuni e delle Sovrintendenze e alle quali tutti si attengono e dovranno attenersi.

Comprendiamo che una rappresentazione così palesemente falsa può essere congeniale ai “catastrofisti” di professione e utilizzata per fare dell’ironia a buon mercato con facili quanto banali battute.

E comunque è del tutto incomprensibile che il gusto della banalizzazione e della battuta ad effetto (il solito abusato Totò e la fontana di Trevi!) abbiano contagiato autorevoli uomini delle Istituzioni e del Governo che, a quanto pare, non hanno letto neppure le proposte e si sono affidati alle errate semplificazioni giornalistiche.

Con l’effetto, persino, di causare il ritiro precipitoso di proposte avanzate in incontri pubblici, anche istituzionali, alla presenza e con l’assenso di autorevoli membri del Governo e qualificati rappresentanti della Pubblica amministrazione.

Nello stigmatizzare le evidenti strumentali forzature e gli attacchi tanto grossolani quanto calunniosi di qualche esponente politico alla disperata ricerca di una visibilità e di un ruolo parlamentare magari perso, richiamiamo tutti a un sereno esame nel merito delle proposte scevro da “confusioni mediatiche” per comprendere il senso e la portata delle stesse che, a quanto pare, sono finalizzate a contribuire alla riduzione del debito pubblico o alle indispensabili coperture finanziarie ai provvedimenti di riduzione della pressione fiscale (a tal proposito si ricorda che una stima del Ministero delle finanze del lontano 1997 quantificava in 5 miliardi di euro la vendita di questi ormai “relitti del demanio marittimo”).

Siamo consapevoli e – responsabilmente – non intendiamo sottrarci, al grande sforzo che si chiede a un settore stremato, oltre che dalla crisi economica, dalla pressione fiscale (si ricorda, ad esempio, che siamo le uniche aziende turistiche ad avere l’aliquota IVA ordinaria al 22% invece che quella speciale al 10% applicata a tutte le altre e che molte aziende balneari non sono in grado di pagare i canoni stabiliti da una legge sbagliata del 2006 tanto da generare l’esteso contenzioso fonte di un gettito insufficiente per lo Stato), nonchè dall’incertezza normativa per una legislazione risalente al Codice della Navigazione e che necessita di un riordino per adeguarla alla nuova realtà sia economica che ai principi costituzionali e comunitari.

Chiediamo, però, che queste proposte, come eventualmente altre, siano serenamente esaminate e discusse senza falsi quanto infondati preconcetti e senza offensive banalizzazioni.

Le imprese italiane che rappresentiamo meritano rispetto e considerazione e non la presa di posizione pregiudiziale magari di chi continua ad opporsi a qualsiasi iniziativa che riguardi questo settore con argomentazioni fragili e inconsistenti – in alcuni casi palesemente strumentali – arrivando persino a infangare e demonizzare 30.000 aziende a conduzione familiare disonorandole quale potente “lobby” nel mentre le stesse ben meriterebbero di essere difese, elogiate e sostenute quale peculiarità italiana che costituisce un fattore di successo e di competitività del turismo nazionale.

A tal proposito oggi abbiamo chiesto un incontro urgente ai capigruppo parlamentari di tutti i partiti presenti in Senato quale contributo a un esame più serio e concreto all’altezza delle sfide che il nostro Paese sta affrontando e, soprattutto, dovrà affrontare.

 

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