Liberalizzazioni commercio, negozi verso sei giorni di chiusura

La proposta di legge sugli orari, ora al Senato, impone dodici giorni di saracinesca abbassata, sei derogabili. Bussoni: tutelare le piccole imprese

 

È braccio di ferro tra gli operatori commerciali sulla nuova disciplina degli orari di apertura dei negozi attualmente in discussione in commissione Industria e commercio al Senato. Giovedì una commissione ristretta esaminerà gli emendamenti (solo tre) con il Governo, anche per verificarne gli orientamenti. Di certo c’ è che i piccoli ritocchi imporranno il ritorno alla Camera del provvedimento e l’ eventuale approvazione slitterebbe al 2016. Il disegno di legge approvato alla Camera non va bene a Federdistribuzione e a Confesercenti per opposti motivi. Rispetto alla liberalizzazione completa del Governo Monti, il testo attuale reintroduce, in 4 articoli, un minimo di vincoli con 12 giorni di chiusura obbligatoria (6 derogabili) e prevede la possibilità di accordi territoriali su iniziative dei Comuni, norme anti-movida e un fondo di sostegno alle microimprese. Per Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione, «è un testo confuso, con errori logici nel primo articolo che abbiamo contribuito ad eliminare. Ma poi negli altri tre non si tiene conto dei cambiamenti del primo». Poi Cobolli incalza: «Sono previsti incentivi da parte dei Comuni per i negozianti che seguono le sue indicazioni, ma questo è sbagliato: le decisioni devono essere prese dagli imprenditori. Anche l’ Antitrust sostiene che i Comuni non possono concedere incentivi. Eppoi non si capisce perchè bar e ristoranti possano stare sempre aperti e gli altri no». Duro Mario Resca, presidente di Confimprese, l’ associazione del franchising, che rifiuta il compromesso che riduce l’ obbligo di chiusura da 12 a 6 giorni. «Non si possono chiudere per legge – dice – le imprese che vogliono servire i clienti. Quest’ anno il 1° maggio e il 25 aprile gli associati nell’ abbigliamento e calzature hanno registrato una crescita del fatturato del 10%. E le giornate festive per cui si prevede l’ obbligo di chiusura valgono il 4% del fatturato annuale, circa 8 milioni per associato». E poi perchè, si chiede Resca, «l’ obbligo di chiusura valga per certe merceologie e non per bar e ristorazione, elettronica di consumo, arredo e librerie. Non si capisce la ratio per cui il diritto a conciliare tempi di lavoro e di riposo debba valere solo per gli addetti di alcuni settori». Più morbida Confcommercio, secondo cui «è necessario proseguire verso la realizzazione di una regolamentazione minima e ragionevole in materia di orari dei negozi, peraltro assolutamente compatibile con i principi e le prassi prevalenti in Europa in materia di libertà di concorrenza». Dal fronte opposto Mauro Bussoni, dg di Confesercenti, sostiene che «12 giorni di chiusura obbligatoria su 60 festività non possono compromettere il processo di modernizzazione del Paese. Amazon è aperto anche alla domenica? Certo, ma la consegna la effettua dal lunedì in poi». Bussoni si appella anche «al principio della pluralità distributiva. Se si soffocano le piccole imprese commerciali si vìola lo statuto delle imprese». Sereno si dichiara Bruno Astorre, senatore Pd, relatore del provvedimento. «Ricordo che alla Camera non c’ è stato nessun voto contrario. E anche al Senato non ci sono grandi opposizioni alla riforma per il semplice fatto che non c’ è nessun passo indietro nel processo di liberalizzazione, principio che deve comunque risultare compatibile con la tutela dei lavoratori». Astorre sottolinea che «persino in Inghilterra e Germania ci sono piccole restrizioni alle aperture: in Inghilterra i negozi non rimangono aperti 365 giorni l’ anno per 24 ore, eppure l’ e-commerce è molto più sviluppato rispetto all’ Italia». Poi aggiunge che «è normale che la legge preveda un sostegno alle piccole imprese commerciali, semmai porrei attenzione all’ articolo 2 (accordi territoriali ndr) che può prestarsi a qualche confusione: dobbiamo ragionarci un po’. Ma ricordo che è già previsto che gli accordi territoriali non sono vincolanti e come tali se ne potrebbe fare a meno».

di Emanuele Scarci da “Il Sole 24 Ore”

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